– Buon compleanno! – Dico a mio nipote, figlio di seconde nozze di mio fratello. Compie 25 anni. Nonostante sia alto un metro e novanta, con il cappuccio della felpa in testa, con i baffi e la barba che gli sono cresciuti dal 24 febbraio, assomiglia a uno dei sette nani della favola di “Biancaneve”. È incappucciato perché in casa fa molto freddo.
Vicino a lui c’è sua madre, mia cognata, Galochka.
Loro sono in affitto come sfollati in una casa alla periferia di una cittadina piccolissima al nord-ovest dell’Ucraina, dove si sono rifugiati quando sono scappati da Irpin’.
– Oggi ho fatto mlinzy (le crêpes) per festeggiare – dice Galochka.
– Potevi evitarlo – da vero nano Brontolone le risponde mio nipote, – abbiamo altre cose da mangiare, perché dovevi sforzarti?
– Per fare un po’ di festa – sorride amaramente mia cognata.
Mio fratello non c’è, è tornato a Irpin’, liberata dagli occupanti, per vedere in che condizioni è la loro casa, per prendere i documenti, se ci sono ancora.
– Siamo stati fortunati, la casa è praticamente integra, senza le finestre, ma è integra. Infatti, Volodya ci ha chiamati per dire che ha chiuso le finestre senza i vetri con il compensato, per evitare che la pioggia rovini quello che è rimasto, e poi per proteggerci dagli sciacalli. Ho chiesto se mi può portare il phon per asciugare i capelli, fa troppo freddo qui – sospira – troppe cose a cui siamo abituati sono diventate un lusso. Anche non sentire le sirene o sentirle più lontano e meno fa tanta differenza. Qui la gente non ci fa neanche caso, sono abituati: mentre suonano le sirene escono a comprare o coltivano l’orto. Da noi era diverso. Ma mi abituo anche io a questo tipo di serenità. Ultimamente però mi sento molto nervosa. Sono stanca, voglio tornare a casa.
– Tu potresti venire da noi. Lo so che non vuoi abbandonare i tuoi ragazzi, ma almeno per un paio di settimane, per riposarti e riprenderti.
– No, – risponde subito senza pensare. – Una notte durante forti bombardamenti a Irpin’ io e Volodya siamo scesi nel rifugio sotto casa e Dmytro è rimasto a casa. Tutta la notte non ho chiuso occhio al pensiero che se fosse successo qualcosa, saremmo potuti rimanere separati. No. Ho deciso che sarò sempre vicina ai miei ragazzi e se dovessimo morire, meglio essere tutti insieme.
– Come sta tuo padre? -chiedo per cambiare discorso.
Mi risponde raccontando tutto nei minimi dettagli, come fa sempre, senza farsi sfuggire una virgola.
– Ha 80 anni, vive da solo da quando mia mamma è morta (nel 2017), è quasi cieco, ma non vuole andare da nessuna parte, né da me a Irpin’, né da mio fratello a Mosca, vuole rimanere a casa sua. Grazie a Dio abbiamo dei vicini d’oro che gli danno una mano. A Krynychna, dove vive mio padre, vicino a Makiivka, nel territorio occupato le linee telefoniche ucraine non funzionano. Quindi ho il rapporto con lui tramite mia zia che abita a Donetsk che dista pochi chilometri da Makiivka. Prima della pandemia mio papà veniva ogni tanto da noi, a Irpin’, per ricuperare la pensione che si accumulava per mesi e stare un po’ nel comfort che offre un appuntamento in città. Ma si annoiava in fretta e tornava a casa sua. Da quando è iniziata la guerra gli spari si sentono molto di più dopo tanti anni di “quasi” silenzio. Mi preoccupo per lui e chiamo la zia di Donetsk con Whatsapp e lei a sua volta chiama mio padre con la rete locale delle regioni separatiste. Il primo cambiamento che avevano fatto i separatisti quando hanno usurpato il potere, è stato la sostituzione dell’operatore telefonico e radiotelevisivo. Da allora uso questo metodo di comunicazione tramite la zia. Però ultimamente non riesco a parlare con lei, divento subito nervosa. Mi racconta tutto quello che sente alla televisione e mi racconta che la nostra guerra, le nostre vittime sono fake e che sono delle messe in scena.
Il volto di mia cognata diventa come una luna fredda e lontana e la voce leggermente meccanica come se dovesse commentare/raccontare qualcosa sforzandosi:
– Le dico, le case vicine alla nostra sono state praticamente tutte distrutte, avevano fatto da scudo alla nostra. Noi abbiamo vissuto senza gas ed elettricità per giorni, sotto i bombardamenti, abbiamo visto tutto con i nostri occhi. La nostra macchina, che era parcheggiata sotto casa, è stata distrutta. Noi abbiamo dormito nel locale tecnico sotto il nostro palazzo, con le altre famiglie ed è un’esperienza da non ripetere. Le dico che mentre eravamo in fuga e dovevamo passare un pezzo di strada sotto gli spari per arrivare dai militari ucraini che ci hanno portato verso la stazione dei treni, abbiamo visto i corpi qua e là, ma uno lo ricorderò per sempre, il corpo di un uomo civile con metà della testa. Tutti passavano vicino a lui e tutti lo abbiamo visto. Un volontario che ci stava accompagnando, ha cercato di coprire il corpo con un cartone, ma il vento portava via il cartone e questa morte orribile era agli occhi di tutti. Poi l’ho visto in televisione, era sempre lì, nello stesso posto. Dopo tutto quello che ho visto non posso più sopportare quando lei mi racconta quello che aveva sentito in televisione. Ma non ho altra scelta, la devo chiamare per avere notizie da mio padre. Le ho già chiesto di non parlarmi delle notizie che ascolta, ma lei è ossessionata di raccontarmi “come stanno realmente le cose da noi, nazisti”. Io poi sto male, non riesco a dormire. Com’è possibile che mia zia, sorella di mia madre, che mi conosce sin dalla nascita, crede alla propaganda e non a me? Loro sono diventati degli zombie, credono solo a quello che sentono alla televisione. Non ho né le forze né la voglia di parlarne, ma non ho altra scelta.
Si ferma, annuisce con la testa ai suoi pensieri:
– Sai, quando penso al futuro, mi manca il fiato. No, non per le cose che abbiamo perso. O per quello che abbiamo vissuto. Anche se fino ad adesso non riesco a credere che tutto quanto era successo a noi! A noi! Dall’oggi al domani una vita tranquilla e a volte monotona è diventata un incubo, un orrore senza fine. Ma la cosa peggiore che mi fa rabbrividire sarebbe… – trattiene il fiato e poi “spara” – Se dovessero vincere loro? Se riescono a conquistarci?! Diventeremo zombie come loro anche noi? Sarò anche io così? Quando ci penso mi viene il desiderio di impiccarmi.
Sembra che guardi dentro sé stessa e non riesce a sorpassare il vuoto nella sua mente. L’idea di trasformarsi in sua zia “zombie della propaganda” la spinge alle decisioni drastiche per il futuro senza libertà.
Ho già visto questo sguardo, mi ricorda qualcuno. Si, erano gli occhi e i volti delle donne intervistate a Mariupol dal corrispondente militare russo, praticamente “tutto fare”. Faceva servizi sia per commentare le bravate militari che le interviste dei “poveretti liberati dai nazisti”.
Ricordo come le donne intervistate; dopo un mese e mezzo vissuti nella città assediata dove la morte e il terrore erano in abbondanza, ma cibo e acqua mancavano, raccontavano proprio a lui, complice di questa guerra, il loro vissuto. Poi quando si accorgevano di chi avessero davanti, tacevano con lo sguardo vuoto e le parole del dolore congelate sulle labbra.
Galochka è una biologa. Ha lavorato come ricercatrice nel giardino botanico di Donetsk. Poi, nel 1999, si sono trasferiti a Irpin’ per il nuovo lavoro di mio fratello all’università.
Galochka adora le piante e ricorda i nomi in latino praticamente di tutte quante. Da quando la conosco porta gli occhiali con le lenti spesse e senza assomiglia a un topolino. A Galochka non piacciono “gli angoli” nella vita e lei ha sempre cercato di evitarli, a volte anche permettendo agli altri di prendere quello che era suo. Evitava i conflitti, evitava di alzare la voce, ad un conflitto preferiva sempre “lasciar stare”.
Ma adesso, davanti a questa guerra, davanti all’ingiustizia e il futuro senza libertà è diventata decisa e con le idee molto chiare su quello che non si può “lasciar stare”.
– Io rimango qui, con i miei ragazzi. Con questi nuovi sviluppi della guerra anche loro possono essere chiamati a difendere Ucraina. Io rimango con loro. Più di ogni altra cosa voglio tornare a casa. Nella nostra casa. Solo adesso capisco quanto eravamo immensamente felici e come la nostra vita era bella.
Improvvisamente un pensiero la infastidisce e con grande amarezza lo racconta:
-La zia con suo marito sono stati da noi prima della pandemia. Parlavamo tutti russo, come al solito, sia in casa tra noi, che quando li abbiamo portati fuori. Loro hanno visto nella nostra cucina un souvenir con la bandiera ucraina. Me l’ha ricordato in queste nostre ultime telefonate, dicendo che noi siamo nazionalisti ucraini, banderovzy, teniamo la simbologia nazista in casa, – alza gli occhi al cielo – Le ho detto “sì, teniamo la bandiera ucraina, la nostra bandiera, perché è il nostro paese, è la nostra casa”! Lei non capisce come si può amare la bandiera che rappresenta la tua casa.
Voglio abbracciarla forte forte la mia Galochka, perché queste parole le sento ovunque, soprattutto da donne che hanno dovuto abbandonare le città dove vivevano prima che cominciasse la guerra, e mi si stringe il cuore.
Oggi la bandiera ucraina rappresenta per noi la casa, casa dove eravamo felici e dove vogliamo essere felici in futuro.
Quale sarà il prezzo da pagare? Tutto quello che sia necessario pur di non diventare degli “zombie”.
Tetyana Bezruchenko
Cittadina italiana dal 2008, residente a Milano, nata a Mariupol, membro fondatore del Centro culturale Wikiraine, responsabile della citta di Milano e Provincia dell’associazione culturale europea italio-ucraina Maidan