Mi chiamo Alyona e sono italiana. Quando mi presento, quasi tutte le persone per prima cosa mi chiedono: di dove sei?
Sono nata 24 anni fa a Mariupol, una città nel sudest dell’Ucraina, distante circa 80 chilometri dal confine con la Federazione Russa. Mariupol si trova sul Mar d’Azov che tanti italiani non conoscono o pensano che sia un lago, quello sopra al Mar Nero.
Sì, sono nata in Ucraina, ma sono di madrelingua russa. Spesso le persone mi chiedono: ma che differenza c’è tra il russo e l’ucraino? sono simili no? Rispondo: sì, sono quasi uguali, come l’italiano e lo spagnolo.
Il mio undicesimo compleanno l’ho festeggiato in Italia, perché mia mamma ha sposato un italiano e quindi ci siamo trasferite a Milano. Dalla prima media ho studiato in Italia e tra qualche mese mi laureo.
Parlo russo, italiano, inglese e anche un po’ di francese, tedesco, spagnolo e ucraino.
All’università, grazie al programma di educazione Erasmus, sono stata a studiare a Danzica e a Lisbona. Ho anche avuto la possibilità di viaggiare e di vedere molte delle più importanti capitali e città europee.
Nei miei viaggi ho conosciuto tantissime persone di cultura e lingua diverse. Ho ascoltato tantissime storie e ho capito che la storia del nostro mondo si scrive con le storie di ognuno di noi.
Vorrei raccontarvi un po’ della storia della mia terra d’origine tramite la storia della mia famiglia.
Il mio bisnonno materno si chiama Dmitriy (1910 – 1944).
Da alcuni documenti che abbiamo trovato nel 2014 abbiamo scoperto che era di origine bielorusse ma lavorava come medico a Leningrado (l’attuale San Pietroburgo) e il 15 settembre del 1941, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, è stato chiamato a difendere la città dall’avanzata dell’occupazione tedesca.
Nel 1943, durante una sola battaglia, ha salvato 18 vite e per questo, per lo spirito di sacrificio e per il coraggio dimostrato, è stato insignito della medaglia d’oro al valore militare.
Nel febbraio del 1944 è caduto in guerra.
É rimasto lì, nelle terre paludose che circondano Leningrado. Non ci sono né tombe, né fosse comuni. Solo nel 2010 hanno inaugurato una lapide commemorativa dove c’è scritto il suo cognome, Bezruchenko, quello che porta mia madre….
Nell’autunno del 1943, in una grigia giornata piovosa che pareva senza fine è stato trovato un bimbo di 2 anni, rachitico, con una pancia grande e gonfia dalla fame…. era mio nonno Sergey. Sua mamma, la mia bisnonna, non più sostenuta da suo marito Dmitriv, chiamato a difendere la patria, in fuga dalla guerra e dalla povertà della città, lo aveva affidato alle cure di una famiglia contadina che però a sua volta, viste le difficolta crescenti e non più sostenibili, si era vista obbligata a lasciare quel bimbo alle cure del Comune.
E così mio nonno era seduto davanti a Maria, la presidente del consiglio del villaggio Novoucrainka. Maria era nata nel 1912 vicino a Yuzovka, che tra il 1924 e il 1961 ha portato il nome di Stalin e adesso è nota in tutto il mondo come Donetsk. Era una di quelle ragazze che adoravano la meccanica: automobili, trattori, macchine agricole, etc, etc… È stata una delle prime donne ad emergere e realizzarsi in un ambito cosiddetto maschile. Ha studiato ed è diventata un meccanico. Lavorava nei campi giorno e notte. È stata eletta deputato della sua provincia. Nell’inverno del 1934 ha partecipato al diciassettesimo congresso del Partito Comunista tenutosi a Leningrado, dove Kalinin, il braccio destro di Stalin, le consegnò la medaglia di Cavaliere del lavoro.
Il Congresso del Partito Comunista del 1934 è stato un congresso famoso, chiamato da Stalin “Il congresso dei vincitori”.
In quel periodo era già stata completamente eliminata qualsiasi opposizione al partito comunista. Stalin aveva dichiarato che, grazie al sistema dei kolkhoz, l’URSS era diventato un paese all’avanguardia sia nel campo dell’agricoltura che industriale.
Purtroppo, più tardi questo Congresso è entrato nella storia come il “Congresso dei fucilati”; infatti, tra il 1937 e il 1938, 1108 deputati del congresso dei vincitori furono arrestati con l’accusa di sabotaggio e di attività antirivoluzionaria. Nel 1937 la mia bisnonna Maria, presa dalla paura di aver partecipato a quel Congresso, seppellì nell’orto vicino a casa la medaglia ricevuta nel 1934.
Maria guardava il bambino seduto davanti a lei e pensava che avrebbe dovuto portarlo al più presto all’orfanotrofio o all’ospedale, affinché venisse curato e non morisse. I 50 km che separavano Maria dalla città dove si trovava l’ospedale erano di terra battuta, terra di chernozyom, terra nera, terra ricca di sostanze nutritive, grassa, fertile, che accoglie ogni seme che cade e con la sua generosità lo fa crescere. Ma fuori pioveva e questa strada non era percorribile…. così Maria è diventata la mia seconda bisnonna.
Nonno Sergey (1941 – 2009).
Il primo ricordo di mio nonno Sergey, che era proprio quel bambino di 2 anni, è una grande patata calda e profumata, che teneva tra le mani dopo tanta, tanta fame, e un giubbotto caldo, troppo largo per lui. Un grande gallo dalle piume colorate cercava di rubargli la patata dalle mani e lui che si difendeva con un bastone.
La mamma Maria non era mai a casa: lavorava nei campi dalle 4 del mattino fino a mezzanotte. Suo marito era caduto in guerra.
A casa con il piccolo Sergey (Serezha) c’era sempre la nonna Stepanida, mamma di Maria. Stepanida cucinava, lavorava nell’orto, allevava gli animali, cardava la lana e lavorava la maglia. Le sue mani erano sempre al lavoro, non esistevano né ferie, né giorni di festa. Ma quando trovava dei momenti liberi, ricamava le camicie, i rushnyk, i quadri ricamati per abbellire la casa, per dare vita ai suoi sogni e alle canzoni che vivevano nel suo cuore.
Serezha è diventato un ragazzo come tutti gli altri: andava a scuola, faceva le birichinate, aiutava nei campi e la sera qualche volta rubava le uova delle galline che allevava la nonna Stepanida per procurarsi i soldi per andare al cinema. Sì, rubava le uova. Perché i contadini non ricevevano uno stipendio e non avevano i soldi, ma per andare al cinema bisognava pagare il biglietto. Come avrebbe potuto fare diversamente?
Dagli anni Trenta fino al 1966 i contadini venivano pagati con i “Trudodni”, cioè “giorni di lavoro”. Per un giorno di lavoro ricevevano una crocetta in un registro. Alla fine dell’anno, dopo il raccolto, il Kolkhoz pagava lo Stato una tassa per l’uso delle macchine, la benzina, gli attrezzi, attraverso i prodotti agricoli in quantità ben definite e dettate dallo Stato. Tutto ciò che rimaneva, lo si divideva tra i contadini in relazione ai giorni di lavoro (Trudotni).
Per 40 anni nel Kolkhoz non sono esistiti gli stipendi. Per sostentarsi e lavorare venivano coltivati dei piccoli orti e si allevavano galline, oche, conigli, mucche e maiali. Ma anche qui bisognava stare molto attenti, perché su ogni gallina, mucca o qualunque altro animale si pagavano le tasse allo Stato. E queste tasse si pagavano ogni giorno con le uova, il latte o la carne. Per avere dei soldi si portavano le eccedenze dei propri prodotti in uno dei centri di raccolta dove venivano venduti ad un prezzo di cambio prestabilito dallo Stato.
Per andare al cinema Serezha rubava qualche uovo e le portava al centro di raccolta. Si godeva il film con i suoi amici, furbi come lui. Con la magia di un litro di latte, di un po’ di miele o di qualche chilo di verdura per tutti i ragazzi di quel tempo si apriva una finestra di sogno su altre realtà, dominate dagli eroi di guerra e dagli stacanovisti.
Serezha scriveva poesie e sognava di diventare un giorno un giornalista. Nei Kolkhoz però non esistevano altre scuole se non le medie. Quindi se avesse voluto continuare a studiare, all’età di 14 anni avrebbe dovuto trasferirsi in città. Dal 1920 fino al 1969 ai membri dei Kolkhoz non veniva rilasciato il passaporto: era un modo per fermare la migrazione dei contadini, che scappavano dai Kolkhoz per andare in città. Nel 1956, Serezha riceve il permesso di partire per Donetsk, che si trova a settanta chilometri da casa sua. Va a studiare in una scuola professionale per elettricisti.
Fu una grande gioia per sua nonna Stepanida ma anche causa di molta preoccupazione e fatica per la mamma Maria, che ha fatto di tutto pur di permettere a Serezha di trasferirsi in citta per continuare gli studi.
Una volta arrivato in città, Serezha si sorprese nell’apprendere che la sua lingua, quella che parlava da sempre, che studiava, che leggeva, in cui scriveva le poesie non era parlata in città. Capiva poco. Era una lingua nuova, ma per continuare a studiare, in un’estate dovette passare completamente dall’ucraino al russo. Fisica, matematica…tutte le materie. É stata dura, ma la voglia di studiare era tanta. Da allora parlerà russo per tutta la sua vita, esclusivamente russo.
Dopo gli studi è stato mandato a lavorare a Mariupol.
Mariupol era una città industriale in forte sviluppo: oltre ad un grande porto industriale, aveva fabbriche siderurgiche, chimiche e di ingegneria meccanica. Per favorire lo sviluppo della città, giovani specialisti di ogni genere venivano mandati in queste fabbriche. Per i lavori pesanti sfruttavano la manodopera sia dei detenuti, sia dei detenuti rilasciati per buona condotta.
Nel 1965 mio nonno Sergey ha sposato mia nonna Nadiya.
Nadiya è nata e cresciuta a Mariupol. Andava a scuola, dove si appassionò alla lingua francese. Sognava di fare l’interprete. Tutte le materie venivano insegnate in russo e la lingua dei suoi genitori, l’ucraino, sembrava una lingua troppo umile, da ‘’poveracci’’, da contadini.
I suoi genitori, Maria e Zachar, sono nati nella regione di Cherkasy, nel 1900. Nel 1933 però sono dovuti scappare da lì per via della fame. Questo periodo fu successivamente chiamato Holodomor (tradotto: morte per fame, carestia).
Nel 1932-1933 una speciale commissione istruita da Molotov, politico sovietico, successivamente anche Vice Primo Ministro, fu inviata in Ucraina per reprimere l’opposizione dei contadini alla collettivizzazione forzata dell’agricoltura (Kolkhoz).
La commissione non si limitò alla requisizione del grano ai contadini, ma confiscò anche le barbabietole, le patate, le verdure e ogni tipo di cibo.
Le brigate d’assalto effettuavano incursioni nelle fattorie senza tener conto che i contadini rimanevano senza cibo, né semenza per la semina successiva. Vennero formate barriere e controlli militari per non far fuggire nelle città le persone affamate, ma soprattutto per non diffondere le informazioni.
Maria, Zachar e il loro primo figlio sono stati fortunati: sono riusciti a raggiungere il mar d’Azov, la loro meta. Il mare come fonte di cibo.
Nadiya, mia nonna, nata nell’autunno del 1945, ci racconta sempre che i suoi genitori sono sfuggiti all’Holodomor. La mia sorellina Sofia, che è nata a Milano nel 2009 spalanca gli occhi e chiede alla nonna: “Ma l’Holodomor non era nella Preistoria, quando c’erano i dinosauri?” – “No, è successo all’epoca della tua bisnonna: se non fosse scappata, non sarebbero nate né la nonna, né la mamma e nemmeno tu.”.
Maria e Zachar non avevano i documenti e avevano molta paura. Erano disposti a qualunque lavoro e qualsiasi cosa pur di sfamarsi e sfamare il proprio figlio.
Maria lavorava nelle cucine, aiutava a pulire le verdure e a cucinare, senza però ricevere uno stipendio. Portava a casa gli avanzi di cibo e un po’ di verdura. Zachar aveva trovato lavoro come fuochista nel locale della caldaia di una fabbrica.
Nel 1966 nasce il primogenito di Nadiya e Sergey, mio zio Vladimir. Nel 1972 nasce mia mamma, Tetyana.
Sin da piccoli mio zia a mia mamma vanno a Novoukrainka, dai nonni.
Infatti, nonna Maria, al termine della Seconda Guerra Mondiale, incontrò al lavoro un uomo, Luca, che nel 1946 era tornato dalla guerra, che per lui è finita in Cina. É tornato a bordo del camioncino sul quale ha passato gli ultimi anni della guerra. Ha conosciuto Maria al lavoro. Lei lavorava sulla mietitrebbia e lui lavorava sul camioncino.
Luca era uno dei dodici figli della di una famiglia di Kulak. Kulak (“pugno”) è il nome dato dai bolscevichi, ai contadini benestanti. Negli anni 20 la politica bolscevica consisteva nell’espropriare tutti i beni dei kulaki, mandarli in Siberia, oppure fucilarli nel caso si fossero opposti, o avessero tentato di proteggere la loro proprietà.
Di tutta la famiglia, che era composta da 14 persone, sono stati risparmiati solo i più piccoli, tra cui il nonno Luca, che compiva 8 anni, sua sorella Olga, che ne aveva 10 e suo fratello Mitya di 6. Sono rimasti senza una casa, senza genitori, senza un pezzo di pane.
Nonno Luca era un uomo di poche parole, sembrava che lavorare la terra fosse l’unico modo di vivere. Aveva le mani d’oro, riusciva a riparare tutto: dalle pentole agli orologi, dalle biciclette alle automobili. Dal 1946 fino al 2000 ha tenuto un diario in cui annotava meticolosamente tutte le informazioni inerenti alle semine e ai raccolti del suo orto.
Il primo ricordo di mia mamma della casa dei suoi nonni è di sua nonna Maria, che si lamentava e piangeva al telefono con suo marito Luca perché la “bambina”, cioè lei, mia mamma Tetyana, non voleva mangiare. La casa dei nonni era grande, bianca, calda, con una stufa alimentata a carbone che riusciva a diffondere il calore in tutte e quattro le stanze. Su questa stufa si poteva anche cucinare. Tutto era molto diverso dall’appartamento in città: i sapori, i colori, la lingua che si parlava. I muri bianchi erano decorati dai quadri, dai rushnik e dai ritratti delle persone care.
Ecco che la porta si apre e all’ingresso c’è il nonno Luca che torna dal lavoro e in mano ha dei vecchi giocattoli. Li mette sul tavolo, li allinea meticolosamente di fronte a sé, vicino al piatto fumante di borsch, la zuppa di cavolo e barbabietole che le aveva preparato sua moglie Maria, prende il cucchiaio di legno colorato, con il quale si mangiava in campagna, e comincia a imboccare i “pupazzetti” …. e alla fine imbocca anche la piccola Tetyana e come per magia, tutto quello che sembrava strano e sconosciuto, diventa familiare e caro.
In città tutte le materie erano insegnate in russo e l’ucraino veniva introdotto come seconda lingua in seconda elementare. Due ore a settimana. I bambini, che nel certificato di nascita avevano almeno un genitore di nazionalità russa, anche se erano nati in Ucraina potevano scegliere di essere esenti o meno dallo studio della lingua ucraina, e in tanti approfittavano di questa ‘’opportunità’’. Solo nel 1987, durante la Perestrojka, si votò a favore dell’insegnamento obbligatorio della lingua ucraina nelle scuole. Ancora oggi mia mamma Tetyana ricorda le parole del nonno Sergey: è vergognoso non conoscere la lingua del Paese che ti dà il pane.
Allo stesso modo non veniva insegnata la storia dell’Ucraina come nazione singola e indipendente: si studiava solo quella dell’URSS. E quando finalmente nel 1988 arrivò un libro sulla storia ucraina – un libro grande quanto una brochure – nessuno lo leggeva, poiché non c’erano professori preparati sulla materia. Questo però diede il tacito permesso ai professori di lingua ucraina di organizzare negli anni successivi delle serate culturali, dove si approfondivano le usanze, i costumi, le tradizioni e i canti popolari ucraini tramite esibizioni teatrali e cene.
Un altro ricordo molto vivido di cui mi parla spesso mia mamma è di lei a 10 anni, che sognava un giorno di poter adottare un bambino americano e crescerlo nel mondo felice dell’URSS. Infatti, quello che veniva descritto in tutte le riviste, comprese quelle per bambini, era la vita triste e impossibile in Europa e in tutto il mondo occidentale. Fame, le malattie e i senzatetto ovunque. I capitalisti che vogliono iniziare le guerre in tutto il mondo. I sovietici invece erano i salvatori del mondo. Un’isola felice in un oceano di nemici e orrore.
L’informazione politica a scuola veniva diffusa settimanalmente e la preparazione militare di base era obbligatoria sia per i ragazzi che per le ragazze; e durante tutte le feste più importanti era presente un veterano di guerra: giovane, ma con tante medaglie. Quello che diceva sempre è che bisogna essere pronti al richiamo della Patria. Di guerra si parlava spesso in modo glorioso, come se si parlasse delle Olimpiadi o di qualche campionato sportivo: siamo eroi, siamo vincitori.
Una volta la mamma, dovendo scrivere un tema sugli eroi di guerra, chiese al nonno Luca perché non gliene parlasse mai, pur avendo combattuto.
In quel momento non rispose, ma dopo qualche giorno, mentre lei stava uscendo a giocare, la fermò e le disse: “Ricordati, la guerra non è così com’è descritta nei libri o come si vede nei film. Sai, esistevano i battaglioni di pena, formati dagli esuli e dai prigionieri politici, che, quasi disarmati, erano posizionati sulla linea di fuoco, per ricevere il primo impatto del nemico. Quando vedevano i carri armati nemici sopraggiungere, il loro istinto diceva di scappare, ma l’opzione di dietro front non era concessa, dal momento che le linee di soldati e ufficiali, che li seguivano, avevano l’ordine di sparare. Capisci? Dovevamo uccidere i nostri, non i nemici. I nostri!”
“Prima di ogni battaglia, per farci reprimere la paura, ci davano un bicchiere di vodka. Non un bicchierino, un bicchiere!”
“Nella battaglia per la liberazione di Kiev, quando dovevamo attraversare il fiume Dnipro, che in quella zona è largo all’incirca un chilometro, sono caduti talmente tanti soldati, che le acque divennero torbide e rosse per via del sangue e dei corpi. Se fossero entrati 20 soldati, ne sarebbero usciti vivi in 5. Immaginati quante persone sono morte, o uccise dagli spari dei nemici, o annegate, tanto più che le imbarcazioni usate per attraversare il fiume erano state costruite con i materiali trovati nelle vicinanze. Secondo i dati ufficiali, si parla di circa 470 mila soldati sovietici caduti. I dati non ufficiali parlano di circa un milione di morti; come sempre in prima fila c’erano i soldati dei battaglioni di pena, i prigionieri di guerra e quelli che sono sopravvissuti all’occupazione dei tedeschi”.
Nonno Luca aveva gli occhi vitrei: guardava dentro di sé. La guerra non finisce mai per uno che l’ha vissuta.
In quel momento mia mamma Tetyana, vista la giovane età, non è riuscita a cogliere la profondità di queste parole. Non sapeva cosa farci con queste informazioni: non sono cose da mettere in un tema sull’eroismo militare. Però queste parole, insieme all’immagine degli occhi vitrei del nonno Luca, le sono rimaste impresse nella memoria.
I miei genitori, Tetyana e Alexander si sono conosciuti nel 1989, quando mia mamma ha finito le scuole superiori.
Mio padre Alexander era uno di quei ragazzi che nel certificato di nascita aveva due genitori di nazionalità diverse: la madre Elza era russa e il padre Vladimir greco. Nella regione di Donetsk, il terzo gruppo etnico più numeroso erano infatti i greci del mar d’Azov. Nel 1780, dopo la guerra tra i russi e i turchi, ci fu il più grande reinsediamento dei Greci dalla Crimea nelle zone disabitate della steppa del mar d’Azov. Da allora sono riusciti a tramandare da una generazione all’altra la loro cultura, la loro lingua e le loro usanze. Era come se fosse una comunità a parte.
Elza, finiti gli studi in Russia, è stata mandata a Mariupol per lavoro. Aveva sposato un ragazzo greco, mio nonno. Nonostante ciò, Elza non ha voluto che i suoi due figli imparassero il greco e nemmeno l’ucraino.
Con il crollo del muro di Berlino, dopo circa 20 anni di stagnazione politica ed economica, nell’URSS sono arrivati dei cambiamenti che hanno completamente stravolto la vita delle persone.
Tutto è cominciato con la riforma monetaria di Pavlov nel gennaio del 1991, per cui tutti i risparmi dei lavoratori sono stati congelati. In questo periodo (il 24 agosto 1991), l’Ucraina ottiene l’indipendenza dall’URSS. La grave situazione economica della regione del Donbas e di tutto il paese – la fame, la disoccupazione, la miseria – contribuirono a far diventare l’economia sommersa che regnava nell’URSS l’economia ufficiale dell’Ucraina.
A livello culturale e linguistico nulla è cambiato nel Donbas. La lingua ucraina, nonostante fosse diventata la lingua ufficiale, non è mai stata implementata. Le scuole avrebbero dovuto avere almeno una sezione di insegnamento in ucraino, ma non tutte le scuole avevano abbastanza insegnanti per farlo.
Anche io, che ho frequentato la scuola elementare in Ucraina, ho studiato sui libri che arrivavano da Mosca e non da Kiev. Anche nella mia scuola, come ai tempi di mia mamma, l’ucraino era insegnato come seconda lingua straniera.
Ed è solo grazie alla passione della mia maestra Olga per le tradizioni e la cultura ucraine che venivano organizzate delle recite con le canzoni e le usanze tradizionali.
Emigrata ma…
Quando sono andata via dall’Ucraina, una volta superato lo shock iniziale, pensavo che la scelta più difficile che avrei dovuto fare sarebbe stata scegliere chi tifare tra il Milan e lo Shakhtar Donetsk in Coppa dei Campioni o tra l’Italia e l’Ucraina ai Mondiali.
Dal 2013 però ho capito che ci sono scelte e decisioni più difficili da prendere. L’Ucraina stava cercando di uscire dalla gabbia sovietica, che oggi è rappresentata dalla Federazione Russa, per cominciare il suo cammino verso l’indipendenza, la libertà e la democrazia, che significa innanzitutto consapevolezza e responsabilità per il proprio futuro. Inizia un conflitto (2013-2014) che viene chiamato “La Rivoluzione della Dignità”.
Anche se di fronte al mondo intero si cerca di passare il messaggio di un conflitto tra russi e ucraini, in realtà è uno scontro tra l’ideologia sovietica e quella della democrazia europea. Non esiste un conflitto tra lingue o nazioni, c’è solo una scelta tra totalitarismo da una parte e democrazia dall’altra. La scelta sarebbe facile, se non ci fosse la propaganda alimentata da finanziamenti illimitati della Federazione Russa.
Mi è difficile credere che la macchina mostruosa creata dal bolscevismo, stia ancora divorando le vite nel mio Paese d’origine.
Vedere le strade, dove andavo in bicicletta da bambina, distrutte dai carri armati, e i ragazzi della mia età tra i caduti in questa guerra mi fa sentire impotente, però allo stesso tempo anche responsabile delle mie scelte.
Mi chiamo Alyona e sono italiana. Non so dove andrò a vivere in futuro o che lingua parlerò quotidianamente.
L’unica cosa della quale sono certa è che la luce e la forza che ci sono nel mio cuore saranno sempre alimentate dalla vyshyvanka (camicia ricamata) della bis-bis-nonna Stepanida. La vyshyvanka è un’opera d’arte dove il dolore e le lacrime di un popolo si sono trasformati, grazie all’amore e un duro lavoro, in fiori e colori.
Articolo realizzato nel 2018
Tetyana Bezruchenko
Cittadina italiana dal 2008, residente a Milano, nata a Mariupol, membro fondatore del Centro culturale Wikiraine, responsabile della citta di Milano e Provincia dell’associazione culturale europea italio-ucraina Maidan