Sergey al servizio della Guardia nazionale ucraina è stato uno dei militari asserragliati nell’acciaieria. Ferito, ora si trova nella capitale per un lungo periodo di riabilitazione e dice: «Difendere la propria città è stata una questione di dignità. So che è stato giusto restare. Ora voglio solo ritrovare mia moglie e mio figlio
Il giorno in cui Sergey concede questa intervista è il primo giorno in cui è di nuovo in piedi dopo mesi di immobilità, prima su una barella in uno dei bunker, trasformato in ospedale, delle acciaierie Azovstal. Poi su un letto di un ospedale, come prigioniero di guerra a Donetsk, da uomo libero a Kyiv. Se qualcuno cercasse in rete i video che mostrano l’uscita il 16 maggio dei soldati dal polo siderurgico, costruito durante l’Unione sovietica e diventato la roccaforte per la difesa di Mariupol, ritroverebbe le immagini dei feriti più gravi, uno di questi è Sergey Aleksun, musicista della Guardia nazionale ucraina.

Sergey oggi ha trentuno anni, ma per raccontare questa storia ha senso partire da una foto che ritrae un gruppo di bambini: è il 2000, è estate, alcuni sono in costume, altri in maglietta e pantaloncini. Sono seduti sulla scaletta di un gonfiabile e stanno festeggiando un compleanno. Siamo in un parco giochi di Mariupol. Ventidue anni dopo, due di questi bambini – oggi uomini – hanno lasciato l’Ucraina, per Praga e per il Canada dopo aver vissuto sotto bombardamenti e attraversando la Federazione Russa. Una di queste bambine – oggi donne – dopo aver perso il fidanzato in Azovstal è scappata con la madre a Kyiv. E poi c’è Sergey: il bambino che si è messo in posa con il suo costume blu e rosso sul punto più alto dello scivolo. Quella foto restituisce alla memoria una generazione dispersa, ferita, uccisa.
Il giorno in cui parliamo, in video-chiamata grazie all’aiuto di Tetyana Bezruchenko, responsabile informazione dell’associazione culturale europea “Italia-Ucraina Maidan” e redattrice del progetto infomativo forzaucraina.it (in quella foto di ventidue anni fa c’è anche sua figlia), Sergey ha pubblicato qualche ora prima sul suo profilo Facebook una immagine che lo ritrae in un luogo che potrebbe essere l’esterno di un edificio, indossa una tuta ed è appoggiato a un deambulatore.

Scorrendo però questa bacheca o il suo profilo Instagram c’è la vita di prima: Sergey con il figlio al palazzetto del ghiaccio di Mariupol; Sergey in uniforme che suona; Sergey in vacanza; Sergey con la moglie e il figlio. «Prima di tutto come stai?», chiedo. «Nell’ultimo mese ho fatto molti progressi, ora sto aspettando un altro intervento, adesso ho una protesi temporanea che però dovrà essere sostituita da una definitiva. Dopo ho davanti un lungo periodo riabilitativo, ne avrò per sei mesi. Dopo ancora non so, al momento non vado oltre». In questo momento Sergey è in una camera o in una corsia. Lui è a letto, alle sue spalle sfiorano l’inquadratura altri malati, sullo sfondo le loro voci. Si trovano presso l’istituto ortopedico di Kyiv.
Il giorno di Pasqua
«Sono stato ferito il 24 aprile, giorno della Pasqua ortodossa. Ci avevano detto che ci sarebbe stato un cessate il fuoco per un giorno, così io e il gruppo di cui ero responsabile abbiamo deciso di uscire per cercare dell’acqua. Avevamo identificato un luogo dove pensavamo che l’avremmo trovata, a metà strada siamo stati intercettati dall’artiglieria nemica che ha cominciato a sparare. Sono stato colpito, ho sentito un forte dolore e poi credo di essere svenuto. Sentivo a tratti, come flash, le voci dei ragazzi che mi hanno trascinato, che mi hanno afferrato per portarmi via. E poi il chirurgo che mi diceva di non preoccuparmi che mi sarei salvato. Non ho veri ricordi, la coscienza andava e veniva. In quei giorni è iniziato anche il periodo più difficile dell’assedio, perché i bombardamenti erano continui, a un certo punto è saltata la sala operatoria. Una delle esplosioni ha polverizzato anche il tetto, eravamo dieci metri sotto terra e di colpo abbiamo visto il cielo. A tutto ciò si univa il fatto che cibo e acqua scarseggiavano sempre di più. Fino a quando le dosi non sono diventate piccolissime e alcuni noi hanno cominciato ad usare l’acqua piovana raccolta».
E cominciano a mancare anche i medicinali, la situazione di Sergey allora già critica diventa drammatica. È stato medicato e disinfettato ma la sua è una ferita importante rischia di perdere la gamba, l’anca è stata seriamente danneggiata. Trovarsi immobili, dipendere dagli altri, rischiare ogni minuto un’infezione mortale: i pensieri di Sergey vanno ai suoi genitori e a Dio. «Ho pregato. E, anche se non vado in Chiesa spesso, sono credente e allora ho pregato. Ero preoccupato dal pensiero dei miei genitori, sapevo che mia moglie e mio figlio erano in salvo in Georgia». Invece i suoi genitori si trovavano poco fuori non molto lontani dall’acciaieria. Allora, Sergey non può sapere che lì, non molto lontano nella sua casa di ragazzo oggi in polvere, anche sua madre è lacerata dall’angoscia perché vede i carrarmati passare e dirigersi proprio là dove sa esserci suo figlio.

Come in tutte le guerre anche in questa una delle ansie principali è sapere, avere notizie di chi si ama. «Fino a marzo quando ancora c’era il segnale internet potevamo chiamare. Dopo, l’unico modo che avevamo era scrivere su carta, uno di noi passava e fotografava queste lettere, poi saliva sopra dove c’era un accesso grazie al sistema Starlink messo a disposizione da Elon Musk e caricava le foto su una chat in cui erano stati inseriti i numeri dei nostri familiari. Ognuno di loro, fuori, poteva allora cercare il messaggio che lo riguardava e digitare una risposta. Quando tutte le risposte erano state inserite il nostro collega scaricava la chat e veniva a mostrarci il messaggio che ci riguardava». Un sistema articolato ma ingegnoso che nel mettere insieme il “passato”, della scrittura su carta, con il “futuro”, del satellite di Elon Musk, spiega la capacità degli individui di restare ancorati a sé stessi anche nelle condizioni più estreme.
Condizioni estreme o sospese come il tempo di Sergey in quei giorni fino al momento in cui arriva una domanda. «Qualche giorno prima della data in cui poi siamo effettivamente usciti i comandanti sono venuti a chiederci se eravamo pronti a uscire da prigionieri: ognuno di noi doveva scegliere per proprio conto. In quel momento nessuno poteva avere un’idea di cosa sarebbe potuto accadere. Poco dopo sono state bloccate tutte le comunicazioni. La mattina del 16 maggio ci hanno detto che saremmo usciti, i primi siamo stati noi dell’ospedale».
Quando scoppia la guerra
Uscire o restare? «In realtà in questo caso non avevo alternative. Io ero tra i feriti più gravi e per me ogni giorno che passava la situazione si aggravava, si avvicinava il punto di non ritorno. Sicuramente, quindi, meglio uscire prigioniero che morire». Andare o restare? Nel giro di poche settimane questa domanda torna nella vita di Sergey. Era già successo: «Dal 19 febbraio ci era stato ordinato di restare in caserma a dormire, prima invece potevamo andare a casa. Veniamo cioè preallertati: sarebbe successo a breve qualcosa anche se non ne intuivamo le dimensioni. Il 24 veniamo svegliati tra le tre o le quattro del mattino e ci viene detto che era cominciata l’offensiva: è scoppiata la guerra».
Iniziano i bombardamenti e soprattutto è subito evidente che il territorio è stato infiltrato: partono i sabotaggi e le segnalazioni sulle infrastrutture strategiche. È chiaro, molte aree sono state minate, con l’obiettivo di diffondere il panico, costringere Mariupol a una veloce resa. La moglie, musicista pure lei, e il figlio di sette anni lasciano subito la città, spostandosi prima nell’Ucraina occidentale, poi verso la Polonia e infine in Georgia dove si trovano in questo momento. Nei primi giorni di marzo un nuovo ordine: i militari dovranno lasciare la caserma di appartenenza, nel caso di Sergey la 3057 nel centro della città, per rifugiarsi in Azovstal.

Si tratta infatti di una struttura assai ampia in grado di accogliere un numero importante di persone, «a un certo punto tra soldati, medici e civili dentro ci sono circa 5 o 6 mila persone», spiega Sergey. Dotata anche di trentaquattro bunker di cui cinque anti-atomici l’acciaieria è una roccaforte potenzialmente autosufficiente a lungo se non fosse che gli informatori hanno segnalato i depositi in cui si trovano il cibo, accumulato già prima dell’assedio, e l’acqua. Beni che per la prima parte del conflitto venivano riforniti con gli elicotteri. Ecco allora che le operazioni di pattugliamento fuori diventano sempre più pericolose. «La vita trascorre in una situazione di costante allerta, quasi 24 ore su 24, si dorme pochissimo, e soprattutto durante i primi giorni, un aiuto alla vita quotidiana ci arriva dalla quantità di materiale sanitario che avevamo dalla pandemia, disinfettanti e mascherine. Usiamo i disinfettanti per lavarci e anche per realizzare, con le mascherine, delle candele».
Una questione di dignità
Andare o restare? Domando: eri un militare e forse non hai potuto scegliere ma se invece avessi potuto? «In realtà in quei giorni tutti ci siamo chiesti cosa fare, la domanda, il dubbio, ha attraversato tutti. Oggi se ripenso alla mia decisione mi sento certo che stia stata la cosa giusta. Dinanzi a questa brutale aggressione proteggere la propria casa, la propria città, il proprio Paese è stato una questione di dignità. Questo istinto alla difesa è qualcosa di naturale, ne vale appunto della propria dignità». Il giorno dell’uscita dall’acciaieria Sergey e i suoi compagni aspettano per ore di essere caricati su autobus, una volta saliti vengono portati a Novoazovsk. Qui restano una notte. Il giorno successivo sono trasferiti a Donesk.
Nel fermo immagine da un video del Servizio stampa del ministero della Difesa russo alcuni militari ucraini lasciano l’acciaieria assediata Azovstal a Mariupol, Ucraina, 20 maggio 2022
A Donetsk, se pur in condizioni di prigionia, viene ricoverato e operato per la prima volta. «All’inizio non volevano operarmi, ci hanno pensato molto, semplicemente mi medicavano e disinfettavano la ferita, poi però le mie condizioni peggioravano. L’intervento è diventato inevitabile. Una delle poche operazioni che hanno fatto». Ogni prigioniero è un piccolo “valore” da preservare perché nella logica spietata della guerra è “merce” da scambiare. In quei giorni Sergey e i suoi due compagni di stanza, due ragazzi più giovani, riescono a trovare il modo di comunicare con le proprie famiglie. Una infermiera si offre come tramite: ancora una volta la vecchia carta si unisce alla tecnologia. I tre prigionieri scrivono una lettera per uno solo dei familiari. Nel suo giorno libero, poi, l’infermiera fotografa tutte le lettere, le invia via chat e aspetta la risposta. Quindi, in corsia durante una medicazione o mentre sta sistemando una flebo fa scivolare il cellulare così da permettere a Sergiy e agli altri di leggere.
Un’azione estremamente rischiosa che la mette a rischio della propria vita oltre che nelle condizioni di perdere il posto. «Perché l’ha fatto secondo te?» Chiedo. Sergey racconta di una lunga chiacchierata un giorno, del tempo trascorso a spiegare la propria frustrazione e solitudine. Allude all’empatia. Intanto da Mariupol anche la madre di Sergey è arrivata a Donetsk cercando notizie del figlio ma questo lui ancora non lo sa. Come non sa dell’accoglienza che avranno a Zaporizhzhia quando saranno liberati: «Ci avevano fatto credere di non essere importanti, che ci avevano dimenticato e invece…».

Fuga da Donetsk
Donetsk in realtà per Sergey è un ritorno e riporta la sua storia al primo dei suoi bivi. Qui, infatti ha compiuto i suoi studi musicali, qui si è diplomato al conservatorio, qui ha conosciuto sua moglie e qui avrebbero dovuto restare, l’obiettivo era proseguire la carriera musicale di entrambi, comprare casa, crescere la famiglia. Solo che c’è la Storia: era infatti il 2014 e poco dopo le manifestazioni di piazza Maidan a Kyiv a Donetsk scoppiano le proteste dei separatisti guidate e supportate dai militari delle Federazione Russa. Non è quella la vita che vuole Sergey, così decidono di tornare a Mariupol che, dopo essere stata nelle mani dei separatisti, era stata liberata. Ma lì ancora, mentre sua moglie incinta, riprendono i bombardamenti: decidono così di trasferirsi a Kherson.
Qui Sergey trova un lavoro nella logistica come semplice operaio in un hub di smistamento, non è il suo mondo ma grazie alla sua abilità riesce in pochissimi mesi ad avere un ruolo da dirigente nella sua azienda. Fino a quando un amico non gli racconta della Guardia nazionale che sta selezionando musicisti a Mariupol: è l’occasione per riprendersi la propria vita, la propria passione. Arriverà però il 24 febbraio 2022 il giorno in cui la Storia lo riacciuffa. Dopo quasi due ore di collegamento mi accorgo che Sergey è stanco. Va bene così, e intanto penso a come quest’uomo ha cercato in tutti i modi di lasciarsi dietro la violenza della guerra e a come questa l’ha inseguito. «Prima del 24 febbraio io e mia moglie avevamo molti progetti, obiettivi, sogni. Ora ci siamo promessi che non ne faremo più, ci basterà ritrovarci e un po’ di tranquillità insieme».
di Serena Uccello
Il link sull’articolo https://24plus.ilsole24ore.com/art/il-musicista-azovstal-mariupol-kiev-morte-e-rinascita-un-soldato-AEupwEEC?s=hpf