LA RUSSIA DI PUTIN, RACCONTATA DALLE PARATE SULLA PIAZZA ROSSA

di Tetyana Bezruchenko


Quanto il mondo dell’informazione ha contribuito a manipolare il racconto della storia sovietica e la costruzione del putinismo. I segnali non visti e due corrispondenti a confronto. Un viaggio nella memoria.


Lo possiamo ripetere” è lo slogan che da decenni accompagna le parate militari “della vittoria” che si svolgono nella piazza Rossa a Mosca ogni 9 maggio e si intende che i carri armati russi, potrebbero di nuovo arrivare fino alla Germania dove nel 1945 sventolava la bandiera rosso sangue con la falce e il martello dell’Urss. Questo slogan incita la popolazione e riguarda le guerre di conquista imperialiste pensate dopo la nascita della Federazione russa come un paese indipendente, sulle ceneri della Repubblica federativa sovietica russa.

Continuo a chiedermi come sia stato possibile che, davanti agli occhi del mondo occidentale, un paese che si dichiara democratico e aperto verso l’Europa e l’occidente sia riuscito a preparare la guerra e a creare una realtà storica parallela senza che nessuno se ne accorgesse. Come è stato possibile creare di nuovo uno “stato Gulag”, uno “Stato prigione” che continua a dichiararsi un Paese democratico e che ricopre cariche importantissime nella gestione della sicurezza mondiale? Come è stato possibile continuare la corsa agli armamenti e condurre guerre interne ed esterne senza essere mai fermati?

Per rispondere a queste domande vorrei fare un excursus nella storia delle parate militari della Federazione Russa che celebrano la Vittoria, quella con la V maiuscola, ottenuta nella Seconda guerra mondiale, che la Federazione Russa celebra sulla piazza Rossa a Mosca. Apriamo una parentesi per spiegare che, diversamente da quanto si potrebbe aspettare, la Federazione russa, e ancora prima l’Unione Sovietica, e l’occidente, i Paesi alleati, celebrano la giornata della Vittoria/Liberazione in date diverse, ma non solo, celebrano anche vittorie diverse. Come è possibile? Stalin ha voluto una “Vittoria tutta sua”, per una “guerra tutta sua”: la vittoria dell’URSS, la vittoria di Stalin. E’ importante quindi capire che cosa liberava Stalin e quali fossero gli obiettivi che voleva raggiungere con la sua guerra.

La propaganda del Cremlino era ed è una macchina che costruisce realtà fittizie che hanno distorto e continuano a distorcere ancora oggi la comprensione degli eventi legati alla Seconda guerra mondiale. I “russi”, ma in realtà i sovietici, i cittadini di tutte le 15 repubbliche sovietiche di ogni nazionalità ed etnia l’hanno combattuta, hanno contribuito alla liberazione dei territori sia sovietici che europei, ma nei libri di storia sovietici e poi quelli del Paese che si è formato dopo il crollo dell’Urss che si chiama la Federazione Russa, la guerra è sempre stata chiamata La Grande guerra patriottica, cominciata alle 4 del mattino del 1941 con “l’attacco a tradimento della Germania del territorio dell’Urss”, finita il 9 maggio 1945 con la “completa vittoria della Unione delle repubbliche socialistiche sovietiche sulla Germania fascista”. Niente alleati.

E’ importante sottolineare che la Germania, nell’immaginario e nella storia sovietica è sempre stata chiamata fascista e non nazista. Perché la tragedia degli ebrei non turbava molto i sovietici: prima che cominciasse la loro guerra patriottica avevano già vissuto i loro “campi dì concentramento e sterminio” durante il periodo del “Grande Terrore” o delle “Grandi purghe” e continuavano a vivere nel paese che si presentava nel mondo come il paradiso per gli operai e i contadini, il paese della giustizia sociale, anche se in realtà non lo era. Il termine “fascista” nel linguaggio sovietico e poi russo, indica “colui che ha tradito, un nemico violento, disumano, senza scrupoli”, quindi ha un significato ben diverso da quello che intendiamo noi in occidente. La parola “nazismo” appare nel linguaggio del Cremlino più tardi, per avviare la narrativa bellica dello stato nuovo, cioè la Federazione Russa, formatasi sui ceneri del gigante della dittatura comunista. Quando l’Urss si è sgretolata regalando a tante persone la speranza della fine della prigionia dei popoli, per molti funzionari sovietici, abituati al dominio “imperiale” e alla “grandezza” sovietica, spesso presentata e chiamata russa, era impossibile accettare i cambiamenti che seguirono il crollo del muro di Berlino e l’apertura degli archivi che avrebbero portato alla luce la verità storica e quindi le falsità su cui era stato costruito il colosso autocratico, spacciato al mondo come un’idea di socialismo riuscito e giusto, forse con qualche “errore” da aggiustare, ma comunque un esempio da seguire.

Una tragedia personale

La disgregazione dell’impero sovietico non era accettabile per molti al punto di volerlo ricostruire a ogni costo. Immaginate ora un agente di servizi segreti, Vladimir Putin, che all’epoca, dal 1985, aveva già ottenuto un incarico importante sotto la copertura da direttore dell’istituto di cultura “Dell’amicizia tra l’URSS e la Repubblica democratica tedesca”, per lavorare nel sistema di spionaggio  in collaborazione con la Stasi tedesca, in quanto rappresentante di un paese con grande “cultura” e “conoscenza” del terrore, come l’Unione Sovietica, in un avamposto del dominio comunista sovietico, e aveva visto crollare il muro di Berlino, la barriera divisoria di due mondi così diversi: autocrazia e democrazia. Per Putin è stato uno shock vedere le persone entrare in un “luogo sacro” come la Stasi con intenzioni di liberare i prigionieri politici e aprire gli archivi. Putin considerava la Stasi e il KGB degli organizzazioni di vitale necessità, una parte importantissima, inseparabile nella struttura della Germania dell’Est e dell’URSS.

L’agente del KGB, Putin, viene messo nel 1999 al potere di uno Stato enorme territorialmente e ricco di risorse minerarie, e non ha mai nascosto quanto il crollo del muro di Berlino e come conseguenza dell’URSS, fosse stato percepito da lui come uno choc, una tragedia personale: la tragedia più grave del XX secolo. Qui nasce una strategia che in trent’anni ci ha riportato esattamente al punto di partenza. No, non al crollo dell’URSS e la nascita di 15 Paesi indipendenti, alcuni davvero indipendenti mentre altri solo sulla carta, ma a molto prima, alla politica dell’Unione Sovietica che sognava di ridisegnare le mappe geopolitiche e diventare la prima potenza mondiale. In questo senso, ricordiamo un’alleanza molto conosciuta anche se nascosta dalla propaganda del Cremlino, quella che fu sottoscritta il 23 agosto 1939 fra la Germania nazista e l’Unione sovietica, il patto comunemente chiamato Molotov – Ribbentrop o patto Hitler – Stalin. Era un patto di non aggressione di durata decennale stipulato a Mosca e firmato rispettivamente dal ministro degli Esteri sovietico Molotov e dal ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop.

I contraenti s’impegnavano a non aggredirsi reciprocamente, a non appoggiare potenze terze in azioni offensive e a non entrare in coalizioni rivolte contro uno di essi. L’accordo inoltre definiva in base a un “protocollo segreto” anche le rispettive acquisizioni territoriali corrispondenti ai loro obiettivi di espansione: in questo modo l’URSS si assicurò l’annessione della Polonia orientale, dei paesi baltici e la Bessarabia per ristabilire i vecchi confini dell’Impero zarista, mentre la Germania si vide riconosciute le pretese sulla parte occidentale della Polonia. Quattro giorni prima, il 19 agosto 1939, la Germania nazista e l’Urss avevano anche firmato un primo accordo commerciale, a cui ne sarebbero seguiti altri due, nel 1940 e nel 1941. Questo ci permette di capire perchè nell’URSS la seconda guerra mondiale fu annunciata ed e’ tuttora chiamata in ogni libro di storia o film sulla guerra, come la Grande guerra patriottica.

E’ molto interessante e importante fare una accurata traduzione dell’espressione sopracitata per capire come funziona la propaganda del Cremlino e come è capace di distorcere la realtà. Una volta che si capisce l’algoritmo sarà facile comprendere l’ipocrisia della narrativa che dura quasi un secolo. Vorrei tornare ancora di più indietro nel tempo, precisamente al 1922, anno in cui il 16 aprile fu firmato il trattato di Rapallo tra Germania e Repubblica socialista federativa russa, in base al quale entrambe rinunciarono a tutte le rivendicazioni territoriali e finanziarie l’una contro l’altra ed aprirono amichevoli relazioni diplomatiche. Entrambi i paesi erano isolati a livello diplomatico, la Germania dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale e Repubblica socialista sovietica russa dopo la rivoluzione bolscevica, e cercavano di migliorare le loro condizioni. Il Trattato di Rapallo forniva una copertura diplomatica per la cooperazione militare, che venne mantenuta top secret, e permetteva alla Germania di ricostruire il suo arsenale militare in Rsfs russa (Alla fine di quell’anno cruciale nasceva l’Unione di quattro repubbliche socialiste, uscite dalla Guerra civile: la repubbliche russa, bielorussa, ucraina e la Repubblica federativa del Caucaso che univa Georgia, Armenia e Azerbaigian che poi, nell’anno successivo, ratificarono il patto) con l’istituzione di una scuola di volo a Lipeck, la costruzione di un impianto di armi chimiche a Vol’sk, due fabbriche per la produzione di carri armati vicino a Mosca e a Rostov sul Don e manovre congiunte sul campo di battaglia. In cambio, gli ufficiali russi (sovietici ndr) potevano essere addestrati sotto copertura nelle accademie militari tedesche. L’intesa militare era sostenuta da un accordo commerciale in base al quale le banche tedesche offrivano linee di credito alla Russia sovietica per acquistare macchinari e forniture militari e industriali e l’Unione sovietica poteva esportare grandi quantità di grano. Le ratifiche del Trattato di Rapallo vennero scambiate a Berlino il 31 gennaio 1923 e registrate nel League of Nations Treaty Series il 19 settembre 1923.

Il grano strategico

Era già prevista una cooperazione militare segreta tra Germania e Russia, il che costituiva una violazione del trattato di Versailles. Si può capire come la Germania abbia cercato di riacquistare il suo potere militare grazie alla nuova dittatura nascente dell’Urss e soprattutto sfruttarne le risorse sia umane che di materie prime. La lettura e la conoscenza del trattato di Rapallo spiegano sia dove il giovanissimo Stato dell’Unione sovietica aveva preso i finanziamenti sia perché l’Ucraina, con la sua importante produzione di grano, era diventata una risorsa strategica per i nuovi rapporti dell’URSS con l’estero. Questo potrebbe anche spiegare la rabbia di Stalin per le proteste contadine durante i primi anni di collettivizzazione, che era necessaria per portare avanti gli ambiziosi progetti di industrializzazione o, per meglio dire, di militarizzazione.

In Italia si sente spesso dire, e si studia anche a scuola, che “l’Ucraina e’ il granaio d’Europa”, ma pochi collegano questa bellissima frase alla morte di 5 milioni di ucraini, provocata dalla politica di Stalin che perseguiva due scopi. Il primo, far capire chi comandava all’interno dell’Urss: fu il primo passo verso il Grande Terrore dopo aver condannato l’Ucraina all’Holodomor. Il secondo, il Paese aveva bisogno di nuovi prestiti per industrializzazione quindi il grano diventava l’unica possibilità di ottenerli. Dal 1930 l’Urss iniziò a perseguire una politica che le avrebbe permesso di riacquistare lo status che aveva durante la Russia zarista e poi perso a seguito della rivoluzione bolscevica, di principale esportatore di grano verso i paesi europei. La leadership stalinista si era posta l’obiettivo di respingere gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada, che dominavano il mercato europeo dei cereali. Per fare ciò, era necessario ottenere, a condizioni favorevoli, quote di esportazione per il grano in quantità uguali a quelle che si avevano durante la Russia pre-rivoluzionaria: almeno 5 milioni di tonnellate all’anno.

La connessione tra approvvigionamento di grano, collettivizzazione e industrializzazione a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 è confermata dalla corrispondenza di Stalin con Molotov. In una lettera del 21 agosto 1929, Stalin osserva: “L’approvvigionamento di grano quest’anno è la cosa principale nella nostra pratica – se falliamo in questo, tutto sarà perduto”. Una settimana dopo, in un’altra lettera, precisava: “L’approvvigionamento di grano è andato bene… Se vinciamo con il grano, vinceremo in tutto, sia nel campo della politica interna che in quella estera”. Stalin sottolinea ancora più chiaramente l’importanza dell’approvvigionamento di grano in una lettera datata 6 agosto 1930: “Forzare l’esportazione di grano con forza e ancora forza. Questo ora è il nocciolo della questione. Se esportiamo grano, ci saranno i prestiti“. Il grano serviva per guadagnare i punti nella politica estera e avere dei prestiti, quindi la maschera del “granaio d’Europa” felice e prospera doveva essere messa sul volto della dittatura bolscevica. Il tutto a discapito del popolo ucraino, costretto alla fame.

Smascherare e mascherare la fame

Ma come é stato possibile mascherare una fame creata artificialmente e la morte di 5 milioni di cittadini ucraini in due anni solo? Anne Applebaum scrive: “Negli anni Trenta i membri della stampa estera a Mosca conducevano un’esistenza precaria. Per vivere in Urss, e anche per svolgere il loro lavoro, avevano bisogno del permesso dello Stato. William Henry Chamberlin, allora corrispondente da Mosca del “Christian Science Monitor”, scrisse che il corrispondente estero che rifiutava di ammorbidire i suoi articoli “lavora sotto una spada di Damocle: la minaccia dell’espulsione dal Paese o del rifiuto dell’autorizzazione a rientrarvi, il che è ovviamente la stessa cosa”. 

Chi invece si prestava particolarmente bene al gioco del regime di Stalin, come Walter Duranty, poteva ricevere premi extra. Duranty fu corrispondente del “New York Times” a Mosca dal 1922 al 1936, un ruolo che, per un certo periodo, lo rese relativamente ricco e famoso. Nato in Gran Bretagna, non aveva legami con la sinistra ideologica; la sua posizione era quella di un “realista” testardo e scettico, che cercava di ascoltare sempre le due versioni di una storia. (…) Tale posizione rese Duranty utilissimo al regime (di Stalin ndr), che fece del suo meglio per assicurarsi che a Mosca vivesse bene, le porte gli si aprivano più che a qualunque altro corrispondente, e per due volte gli furono concesse ambite interviste a Stalin. Ma la motivazione principale dei suoi lusinghieri servizi sull’Urss fu, sembra, l’attenzione che essi gli conquistarono. I suoi reportage da Mosca fecero di lui uno dei giornalisti più influenti del tempo. Nel 1932 la sua serie di articoli sui successi della collettivizzazione e sul piano quinquennale gli fece vincere il premio Pulitzer. Poco dopo Roosevelt, allora governatore di New York, invitò Duranty nella sua residenza ufficiale di Albany, dove il candidato democratico alla presidenza lo subissò di domande.”

Le comunicazioni di Duranty dovevano superare la censura sovietica e la macchina propagandistica di Stalin era potente e onnipresente. Le analisi di Duranty si basavano su fonti ufficiali di Mosca come fonte primaria di informazioni, il che spiega il difetto più significativo della sua copertura: la costante sottovalutazione della brutalità di Stalin. Cioè Duranty era diventato non uno informatore indipendente che riportava i fatti all’Occidente, ma portavoce del regime di Stalin. Descrivendo il piano comunista per “liquidare” i cinque milioni di kulaki, contadini relativamente benestanti che si opponevano alla collettivizzazione sovietica dell’agricoltura, Duranty scrisse nel 1931, ad esempio: “Devono tutti loro e le loro famiglie essere fisicamente aboliti? Certo che no – devono essere ‘liquidati’ o fusi nel fuoco caldo dell’esilio e del lavoro nella massa proletaria”. Prendere per buona la propaganda sovietica in questo modo era del tutto fuorviante, come avrebbe potuto rivelare anche all’epoca un colloquio con i sovietici comuni. La collettivizzazione fu la causa principale della carestia che uccise milioni di persone in Ucraina, il granaio sovietico, nel 1932 e nel 1933, due anni dopo che Duranty vinse il premio Pulitzer.

Anche allora, Duranty respinse i resoconti di scrittori più diligenti, come per esempio Gareth Jones, che riferivano che la gente stava morendo di fame. “Le condizioni sono pessime, ma non c’è carestia”, scrisse in un comunicato da Mosca nel marzo del 1933, descrivendo il “pasticcio” della collettivizzazione. “Ma del resto – per dirla brutalmente – non si può fare una frittata senza rompere le uova”. Alcuni colleghi di Duranty criticarono il suo reportage definendolo tendenzioso, ma il Times lo tenne come corrispondente fino al 1941. Dagli anni ’80, pero il Times ha riconosciuto pubblicamente i suoi fallimenti. Le organizzazioni ucraino-americane e di altro tipo hanno ripetutamente chiesto al Consiglio del Premio Pulitzer di cancellare il premio di Duranty e al Times di restituirlo, soprattutto a causa del suo successivo fallimento nel raccontare la carestia. La commissione del Pulitzer ha rifiutato due volte di ritirare il premio, l’ultima nel novembre 2003, non trovando “prove chiare e convincenti di un inganno deliberato” nel servizio del 1931 che ha vinto il premio.

D’altra parte, il giornalista gallese Gareth Jones che ha viaggiato in Ucraina e ha documentato l’Holodomor ha cercato di raccontare la verità ma fu smentito da Duranty che invece la verità l’ha coperta. Il giornalista gallese fu ucciso in Mongolia, ma prima della sua scomparsa ha raccontato delle sua esperienze in Unione Sovietica e di quello che ha visto in Ucraina a un giovane scrittore emergente che oggi noi conosciamo come George Orwell, per cui noi tutti sappiamo quello che succedeva nell’Urss grazie al romanzo “La fattoria degli animali” scritto sul racconto di Gareth Jones.

Far tacere giornalisti scomodi e’ una pratica costante ancora in uso oggi nelle Federazione Russa. Gareth Jones è stato ufficialmente riabilitato e recentemente la fondazione Gariwo gli ha dedicato una targa commemorativa nel giardino dei giusti a Milano. Vale la pena di approfondire ulteriormente l’argomento, riportando il testo con la traduzione dall’inglese dell’annotazione della biografia di Walter Duranty per capire ancora meglio la portata del disastro in cui può mettere il mondo intero uno solo addetto alla stampa che sotto la presunta imparzialità nasconde solo la sua vanità è il desiderio di successo:

“Basso, poco attraente, che si aggirava per la Mosca staliniana su una gamba di legno, Walter Duranty era un candidato improbabile per diventare il corrispondente estero più famoso del mondo. Eppure, per quasi vent’anni, i suoi articoli hanno riempito la prima pagina del New York Times con una cronaca avvincente delle conseguenze della Rivoluzione russa. Personaggio arguto, accattivante, impetuoso e dallo stile di vita sgargiante, fu vincitore del Premio Pulitzer, la persona più accreditata per aver contribuito al riconoscimento del regime sovietico da parte degli Stati Uniti e il reporter che aveva previsto il successo dello Stato bolscevico quando tutti gli altri lo davano per spacciato”. Ma, come rivela S.J. Taylor in questa biografia provocatoria, Walter Duranty ha avuto un ruolo chiave nel perpetrare alcune delle più grandi bugie che la storia abbia mai conosciuto. “L’apologeta di Stalin” svela abilmente la storia di questa vita compiuta, ma sordida e tragica. Attingendo a fonti che vanno dai giornali alle lettere e ai diari privati, fino alle interviste con personaggi come William Shirer e W. Averell Harriman, la vivida narrazione di Taylor svela una figura guidata dall’ambizione, i cui primi successi nei reportage sulla Russia bolscevica (Unione Sovietica ndr) – fu il primo a prevedere l’ascesa al potere di Stalin – consolidarono la sua reputazione internazionale, alimentarono il suo eccessivo disprezzo per i colleghi e lo portarono a identificarsi con il dittatore sovietico.

Così, durante la grande carestia ucraina dei primi anni Trenta, che Stalin organizzò per schiacciare milioni di contadini che si opponevano alle sue politiche, Duranty respinse i resoconti degli altri corrispondenti sulla fame di massa e, pur essendo segretamente consapevole della portata dell’orrore, rafforzò di fatto l’insabbiamento ufficiale di uno dei più grandi disastri provocati dall’uomo nella storia. In seguito, prese alla lettera i processi truccati delle Grandi Purghe di Stalin, accettando senza problemi la colpevolezza delle vittime. Si credeva il più grande esperto dell’Unione Sovietica e la sua fede nella propria intuizione lo portò in una spirale discendente di distorsioni e falsità, come la sua memorabile scusa per i crimini di Stalin: “Non si può fare una frittata senza rompere le uova”. Taylor cattura brillantemente l’intera gamma della sorprendente vita di Duranty, dalla sua partecipazione alle orge sataniche di Aleister (“la Bestia”) Crowley, al suo drammatico reportage in prima linea durante la Prima guerra mondiale, fino al suo epico rapporto con le donne e al pesante abuso di droghe e alcol. È la storia amara e ironica di un uomo che ha avuto la rara opportunità di portare alla luce la sofferenza dei milioni di vittime di Stalin, ma è rimasto prigioniero della vanità, dell’autoindulgenza e del successo.

L’Italia e l’antiamericanismo

Perché è così importante tenere conto della falsità dell’informazione che riguarda avvenimenti di quasi un secolo di distanza? Perché da allora questo metodo adottato da Cremlino non è mai stato cambiato, anzi dopo la Seconda guerra mondiale si è rafforzato, visto l’enorme contributo nella vittoria degli alleati della Germania nazista e per decenni, e fino alla caduta del muro di Berlino, a Mosca come “trasmettitori della verità” potevano lavorare solo “i duranty” del momento. L’Italia è stato uno dei paesi maggiormente influenzato dalla propaganda del Cremlino. I libri di storia e le enciclopedie più prestigiose avevano come fonte i messaggi propagandistici e lontani dalla realtà che arrivavano da Mosca. Questo ha creato in Italia una corrente molto forte di sostenitori che non accetteranno mai che l’Unione Sovietica e la Federazione Russa, non sono mai state né una unione né una federazione, ma soltanto una prigione con l’ambizione di ricostruire il proprio impero. Maia Plisetskaya (1925-2015), una delle massime danzatrici dell’era contemporanea, pluripremiata durante sua lunga carriera, anche da Stalin, in una intervista dice: “…noi eravamo schiavi, ed il nostro governo faceva di tutto affinché ce lo ricordassimo sempre”.

Ritornando alla seconda guerra mondiale e a riprova, semmai ce ne fosse bisogno, del desiderio di Stalin di ridisegnare le mappe geopolitiche e diventare la prima potenza mondiale, va ricordato che la seconda guerra mondiale non é finita in Europa, come maggior parte di noi immagina al primo istante, ma in “Giappone”. Tutti abbiamo letto e ricordiamo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki che fecero gli Stati Uniti con le bombe atomiche per sottomettere l’impero giapponese, ma pochi ricordano il ruolo dell’Armata rossa nella sconfitta di Giappone militarizzato, che conduceva le guerre nel Pacifico e l’Asia.  L’Unione Sovietica era entrata in guerra contro il Giappone alla mezzanotte dell’8 agosto 1945, due giorni dopo l’atomica su Hiroshima, e le truppe dell’Armata rossa avevano invaso la Manciuria – quattro potenze si contendevamo quesi territori: la Cina, che rivendicava il territorio quale parte integrante della repubblica; l’Urss, che mirava a recuperare i diritti goduti prima del 1905; gli Stati Uniti, che, fedeli alla politica della porta aperta, intendevano ristabilirvi la libertà commerciale e, infine, la Gran Bretagna che appoggiava gli Stati Uniti per analogia di interessi – con l’evidente proposito di penetrare anche in Corea.
Cosa c’entra la partecipazione dell’Armata Rossa nella guerra in Giappone? Nulla altro che il desiderio di Stalin di far crescere il potere della “Russia” rivendicando i territori dell’impero russo. Ritirandosi dai territori cinesi e coreani l’armata rossa lasciava il potere nelle mani dei communisti estremisti.

Oggi conosciamo le conseguenze che hanno vissuto tali Paesi e quali strade di sviluppo si sono rilevati più efficaci e adatti alla vita dignitosa e rispettosa dei diritti umani. Possiamo parlare della crisi caraibica nel 1962 o ingresso delle truppe sovietiche in Afganistan, ma raramente in Italia si può sentire accusare l’Urss o “la Russia” nel suo desiderio di espandersi. “I russi” erano e sono visti tuttora come liberatori, non come occupanti che instaurano regimi “fantoccio” collaborazionisti di Mosca. In Italia si accusano spesso gli Stati Uniti per la loro politica imperialista ma raramente si pensa all’alternativa a cui sarebbero andati i paesi senza il loro aiuto.  Si parla tanto di Europa liberata da Stalin, ma si dimentica che era diventata subito il territorio occupato del regime comunista. Quanto sono stati fortunati i paesi che erano liberati dagli americani/alleati lo scopriamo solo dopo la caduta del muro di Berlino. La cortina di ferro impenetrabile ha coperto per lunghi anni la sofferenza dei popoli rimasti sui territori “liberati” dal mostro bolscevico.

Le parate della dimenticanza

Dopo mille parentesi torniamo alla prima domanda che abbiamo fatto all’inizio: come le parate militari che celebrano la vittoria nella seconda guerra mondiale hanno ingannato la comunità internazionale e ci hanno portati di nuovo alla guerra? La parata della Vittoria si tenne per la prima volta sulla Piazza Rossa il 24 giugno 1945. Fu comandata da Konstantin Rokossovsky e ospitata da Georgy Zhukov.

“Alla parata parteciparono anche il reggimento combinato di tamburini, parti della guarnigione di Mosca e un’orchestra di 1.400 musicisti. Nel complesso, circa 40.000 militari e circa 1.850 pezzi di equipaggiamento militare hanno sfilato lungo la Piazza Rossa. La parte aerea è stata annullata a causa del maltempo. Alla fine del corteo, 200 stendardi delle truppe tedesche sconfitte sono stati gettati ai piedi del Mausoleo di Lenin.” Si legge sul sito ufficiale Tass. E poi? Poi per 20 anni nell’Urss é calato il silenzio, troppo alto il prezzo in termini di vite umane della Vittoria, e le ferite erano così dolorose che sarebbe stato impossibile ingannare qualcuno e celebrare questa vittoria di Pirro. Tuttavia è importante però sollevare il velo calato sul “popolo vincitore” e il suo destino.

Torniamo al ventennio dal 1946 al 1965. In questo ventennio nell’URSS nessuno parlava della Vittoria, niente parate, niente festeggiamenti. Perché? La grande vittoria del 1945 per l’Unione Sovietica ha avuto un prezzo di circa 27 milioni di vite umane, ma ha anche lasciato innumerevoli vedove, orfani e disabili. Secondo il Museo medico militare di San Pietroburgo, durante la Grande Guerra Patriottica, 46 milioni e 250 mila cittadini sovietici furono feriti. Di questi, circa 10 milioni sono rientrati dal fronte con diverse forme di disabilità, di cui 775mila con ferite alla testa, 155mila con un occhio, 54mila ciechi, 3 milioni con un braccio, 1,1 milioni senza entrambe le braccia.

Tanti di questi “frontoviki” (tornati dal fronte ndr) avevano perso la famiglia e il governo sovietico non formulò nessun piano per sostenerli. Furono loro, i “soldati vittoriosi” senza gambe ma con le medaglie d’onore sul petto, a diventare il volto dell’accattonaggio del dopoguerra nell’URSS. Nel luglio 1951 furono adottati contemporaneamente due decreti, il Consiglio dei ministri dell’URSS e il Presidium del Soviet Supremo dell’Urss, “Sulla lotta contro l’accattonaggio e gli elementi parassitari antisociali”. Secondo le statistiche ufficiali del Ministero degli affari interni dell’Urss, nella seconda metà del 1951, 107.766 persone furono detenute per accattonaggio nelle grandi città industriali, di cui oltre il 70% erano invalidi di guerra e di lavoro. L’anno successivo, il ministro dell’Interno riferì della detenzione di 156.817 persone impegnate nell’accattonaggio; nel 1953, 182.342 persone furono detenute per uno “stile di vita parassitario”. Tutti gli invalidi di guerra detenuti sono stati collocati in apposite “pensioni” o meglio carceri, create in ogni centro regionale. Allo stesso tempo, ovviamente, le case degli invalidi di guerra erano situate in luoghi remoti nascosti agli occhi delle persone, il più delle volte in monasteri abbandonati.

Per esempio, i disabili di Mosca sono stati portati al monastero chiuso Klimovsky Pokrovsky a Noginsk (Bogorodsk), dove erano organizzati i reparti per “frontoviki” senza gambe. Durante la seconda Guerra mondiale lì si trovava il campo di prigionia per i tedeschi Oranki-74, e prima ancora – il monastero di Oransky . Uno dei più famosi sanatori speciali per disabili si trovava sull’isola di Valaam. Dal 1950 vi venivano portati tutti coloro che, tornati dal fronte storpi, venivano gettati ai margini della vita. A volte il numero di reparti raggiungeva le 1000 persone.

E non è tutto, ricordiamo un’altra fenomeno che si nascondeva dietro il silenzio del popolo vincitore. La rapida avanzata delle truppe tedesche in profondità nell’URSS nel 1941 e l’accerchiamento di grandi formazioni dell’Armata Rossa nei primi mesi di guerra portarono alla cattura di un gran numero di militari. Secondo le fonti tedeschi, dopo tre settimane di guerra furono catturati 360mila soldati e ufficiali sovietici, alla fine del 1941 c’erano già più di 3,3 milioni di persone. In totale, fino a 5,7 milioni di prigionieri di guerra sovietici passarono attraverso i campi tedeschi durante gli anni della guerra.

Per molti, il ritorno dalla prigionia tedesca però significava il rischio di essere accusato di tradimento della patria. Per controllare “ex soldati dell’Armata Rossa catturati dal nemico”, con decreto del Ministero della Difesa del 27 dicembre 1941 fu creata una rete di campi di controllo-filtrazione, che di fatto erano prigioni militari di massima sicurezza. In totale, durante gli anni della guerra e nel dopoguerra, furono rilasciati e testati circa 1,8 milioni di ex prigionieri sovietici dei campi tedeschi. Molti di loro furono nuovamente arruolati nell’Armata Rossa, una parte significativa finì in speciali battaglioni di lavoro.

I vent’anni senza “Vittoria”

Tutte queste persone sono state cancellate dagli annali della “memoria storica”. Quando il Paese è stato “ripulito” dai vincitori scomodi, in piazza Rossa sono ritornate le parate militari. Se guardiamo con attenzione l’evolversi delle parate militari, notiamo un crescendo di ostentazione di forza che si accompagna alla creazione di un’immagine eroica e romantica della guerra e della Vittoria, quella Vittoria ottenuta pagando un prezzo cosi alto da essere inizialmente considerata quasi come una sconfitta, da non essere nemmeno celebrata per lunghi anni. Consultando gli archivi della TASS sulle parate militari troviamo le seguenti informazioni.

Nel 1946 e nel 1947, il 9 maggio era un giorno di riposo in URSS, ma non ci furono parate militari. Tra il 1948 e il 1964, il Giorno della Vittoria non fu celebrato ufficialmente. Nel 1965, in occasione del 20° anniversario della Vittoria, la data divenne nuovamente festa nazionale e giorno di riposo. Il 9 maggio 1965 si tenne la seconda parata della vittoria nella Grande guerra patriottica. La successiva parata della Vittoria si svolse il 9 maggio 1985, nel 40° anniversario del Giorno della Vittoria. Oltre alle unità militari e alle moderne attrezzature militari, erano presenti colonne di veterani e veicoli da combattimento dell’epoca della Seconda guerra mondiale (carri armati T-34-85, unità di artiglieria semovente SU-100 e lanciarazzi BM-13 Katyusha). I soldati che hanno partecipato alla parte storica della parata indossavano uniformi della Grande guerra patriottica.

La parata, tenutasi cinque anni dopo, il 9 maggio 1990, presentava anche equipaggiamenti militari della Seconda guerra mondiale. Nella rievocazione storica, un trattore che trasportava una replica esatta del monumento al soldato liberatore allestito nel Parco Treptow di Berlino ha attraversato la Piazza Rossa. Nel 50°anniversario del Giorno della Vittoria, il 9 maggio 1995, sulla Piazza Rossa è stata riprodotta una parata storica del 1945. Reggimenti consolidati di veterani rappresentavano tutti i 10 fronti degli anni della guerra con i loro stendardi di battaglia. Anche i membri dell’esercito russo hanno preso parte al corteo, indossando le loro uniformi della Seconda guerra mondiale.

 Nel 1995 si decise di integrare la parte terrestre della parata con una aerea: in onore del 50° anniversario della Vittoria, la formazione di 79 aerei ed elicotteri (compresi i bombardieri strategici Tu-95 e Tu-160) sorvolò la Poklonnaya Gora. Lo stesso anno, il 19 maggio, è stata adottata la legge federale “Sulla commemorazione della vittoria del popolo sovietico nella Grande Guerra Patriottica del 1941-1945”. In base a questo documento, il 9 maggio iniziarono a tenersi ogni anno parate militari con armi ed equipaggiamenti militari.

Non sarebbe nulla di particolare se non ci fosse stata la prima guerra cecena, cominciata l’11 dicembre 1994. La capitale della Repubblica cecena di Ichkeria, Grozny, venne conquistata dopo un lungo assedio dall’esercito della Federazione Russa il 20 aprile 1995. Dal 28 aprile all’11 maggio venne dichiarata da Boris Eltsin la moratoria sulle ostilità dedicata al 50°anniversario della Grande guerra patriottica. Ma la moratoria è stata violata da entrambe le parti. Il 12 maggio, le truppe federali russe hanno continuato la loro offensiva. 

E già dal 19 maggio del 1995, le parate militari sulla Piazza Rossa, la mostra della prepotenza e delle armi, sono diventate un attributo del potere del Cremlino. Il primo ottobre 1999 è iniziata una nuova offensiva da parte della Federazione russa sia di terra che di aria contro la Repubblica cecena di Ichkeria, ed è stata brutale e feroce. I militari dell’esercito federale non si facevano scrupoli a colpire la popolazione civile. L’episodio più drammatico è avvenuto il 21 ottobre 1999, quando un missile russo distrusse il mercato della capitale cecena, Grozny: morirono 140 persone, tra cui donne e bambini, centinaia sono state ferite. Otto giorni dopo, un aereo russo bombardò un convoglio di profughi, tra i 25 morti c’erano volontari della croce rossa e giornalisti. Sono emersi racconti di stupri e violenze sulla popolazione civile, di stragi a sangue freddo. Il 31 dicembre 1999, con la guerra ancora in corso, Boris Eltsin, screditato per i suoi problemi di alcolismo, si dimise e Putin prese il suo posto. Le elezioni anticipate si svolsero nel marzo 2000. Putin giurò come presidente il 7 maggio 2000, un mese dopo Akhmat Kadyrov, ex supremo mufti dell’Ichkeria separatista, è stato nominato capo della Cecenia. Secondo l’organizzazione per i diritti umani “Memorial”, il numero di civili uccisi durante la Seconda guerra cecena va dai 10 ai 20 mila, i dispersi sono circa 5 mila.

I 9 maggio con Vladimir Putin al Cremlino

Il 9 maggio 2000, i veterani della Grande guerra patriottica hanno sfilato per l’ultima volta sulla Piazza Rossa. Nel 2005, nel giorno del 60° anniversario della Vittoria, gli ex membri della Wehrmacht, giunti come parte di una delegazione tedesca guidata dal cancelliere tedesco Gerhard Schröder, sono stati ospiti della parata. Nel 2010, per la prima volta dal 1945, militari stranieri provenienti da 13 Stati, tra cui Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Polonia e Paesi della Comunità degli stati indipendenti (75 persone per ciascun Paese) hanno preso parte alla processione sulla Piazza Rossa. La parata del 2011 ha coinvolto un numero record di militari nella storia moderna della Russia: quasi 20mila persone. Una caratteristica importante delle parate del 9 maggio, che hanno avuto luogo dal 2008, è stato il passaggio di attrezzature militari pesanti.

Dal 9 maggio 2008 si è aggiunta anche la parata annuale dei aerei e elicotteri che sorvolavano la Piazza Rossa. Nel 2012-2014, durante la Victory Parade, sono stati dimostrati nuovi modelli di equipaggiamento militare da terra: sistemi missilistici antiaerei Tor-M2U, veicoli corazzati Typhoon K-63968, sistemi missilistici anticarro Khrizantema-S.

Alla parata dell’anniversario in onore del 70° anniversario della Vittoria nel 2015, sono stati presentati per la prima volta al pubblico promettenti modelli di equipaggiamento militare: il carro armato T-14 e il veicolo da combattimento di fanteria pesante (BMP) T-15 su la piattaforma Armata, il corazzato da trasporto truppe su ruote VPK-7829 (piattaforma “Boomerang”), il BMP e il corazzato da trasporto truppe a cingoli sulla piattaforma “Kurganets-25”, il corazzato da trasporto truppe aviotrasportato BTR-MDM “Rakushka”, l’obice semovente di Calibro 152 mm “Coalition-SV”, veicoli corazzati di maggiore sicurezza “Typhoon-U”, moduli Epoch da combattimento universali telecomandati e altri. Il maggior numero di veicoli è stato coinvolto nella parata dell’anniversario nel 2015: 194 unità di veicoli gommati e cingolati di diversi anni, oltre a 140 aerei ed elicotteri.

Alla parata del 2019 hanno partecipato 13.083 persone e 132 unità di equipaggiamento militare. Erano previsti 74 aerei ed elicotteri delle forze aerospaziali della Federazione Russa. In totale, nella parata del 9 maggio 2020 era previsto l’utilizzo di 225 pezzi di armi e equipaggiamento militare, inclusi 24 degli ultimi modelli di equipaggiamento militare, che dovevano essere presentati per la prima volta. Tra queste novità, ci sono il sistema missilistico anti-nave costiero Bal, il veicolo di sminamento a distanza Listva e i lanciafiamme pesanti TOS-2 Tosochka. L’interlocutore dell’agenzia ha riferito che nella parte aeronautica della parata sarebbero stati presentati 55 velivoli, inclusi quattro complessi aerei Kinzhal e quattro Su-57, oltre a 20 elicotteri, ovvero un totale di 75 velivoli, che simboleggia il 75° anniversario della Vittoria.

Da queste brevi descrizioni si vede chiaramente la curva di crescita frenetica delle parate militari che non è niente altro che una corsa agli armamenti mascherata. Una strategia per svegliare nella popolazione la nostalgia della guerra, romantica, vittoriosa, che nel frattempo mostra potenza, mascolinità e suscita il rispetto per “i veri eroi”. Come si può nascondere qualcosa troppo grande per essere nascosto?  Basta metterlo in evidenza e coprire con una maschera che suscita rispetto e adorazione.

Insieme agli ospiti stranieri invitati a partecipare alle cerimonie ufficiali del Cremlino viene introdotto anche il modo nuovo di chiamare la Germania di Hitler: il termine “Germania fascista”, in uso sui territori sovietici e post sovietici, viene sostituito in “Germania nazista” o “nazifascista”. L’aggettivo nazista e’ utilizzato per indicare uno stato nemico e quindi poi strumentalizzato per screditare paesi considerati nemici come l’Ucraina. L’agente della KGB, Putin, ha saputo sfruttare la condanna del nazismo in Europa e il desiderio europeo di pace, e trasformarli in una nuova guerra usando i vecchi metodi dello stato Gulag e della sua propaganda.

Lo slogan sventolato in piazza rossa a Mosca “Lo possiamo ripetere” nella giornata della vittoria, non riguarda solo l’Ucraina, che l’esercito del Cremlino “sta liberando” ora, con la scusa del avvicinamento della Nato, ma riguarda la “vecchia Europa” che si era permessa di arrivare con le “sue democrazie” sui territori “dell’impero russo” e va di nuovo “liberata”/occupata almeno fino a dove l’agente della KGB ha visto crollare il muro tra due sistemi di valori. Il messaggio che è stato dato durante l’assedio di Mariupol e tutti gli orrori della guerra d’invasione a cui siamo testimoni, parla molto chiaro e ricorda molto il messaggio di Stalin durante il genocio dell’Holodomor in Ucraina: “non mi fermerò, dovete sapere chi comanda”.

(Pubblicato su “il Foglio”, 13 maggio 2023)

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